IMMAGINE LOGICA DEI FATTI

L’irretimento in un inganno.
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01 The challenge

L’immagine logica dei fatti, nel suo dispiegarsi sotto il sontuoso affresco che Gaspare Serenario realizzò a metà Settecento in ossequio alla prassi decorativa per un salone delle feste, si presenta come un dispositivo della visione e, al contempo, come un congegno atto a registrare, silenziosamente ma ineluttabilmente, l’accadere spaziale.

Un dispositivo che, per altro, vede riunite molte delle invarianti della poetica del suo autore, dal frammentare e ripetere gli elementi costitutivi dell’opera, all’inserirli come componente attiva all’interno di una dimensione riflessiva che coinvolge le questioni dell’abitare, il trasformarsi della materia, i percorsi del tempo.
Le modalità con le quali Quida costruisce e aziona i suoi dispositivi a vocazione veritativa generano una tensione, fosse pure soltanto concettuale, tra il fissaggio dei dati di realtà, mobili o immobili, e la scelta dell’“inquadratura”, la selezione visiva autoriale, che entra in gioco in modo discreto ma sostanziale.
Il dispositivo di registrazione può essere, come in questo caso, una piattaforma di specchi, ma potrebbe anche consistere, come è stato per la serie Ritagliare i propri spazi, in un foglio di carta fotosensibile inserito tra i setti murari incompleti di un cantiere edilizio, o tra ciò che resta di un edificio in abbandono. In entrambi i casi, la fenomenologia dell’esserci delle cose interferisce con lo spazio d’osservazione prescelto, che diventa cantiere di esistenza. Sulla carta fotosensibile la luce costruisce una traccia del brano architettonico lavorando, potremmo dire, per differenza, marcandone cioè i vuoti che lo circondano; l’intensità e l’angolazione con le quali la luce, entro un tempo dato, colpisce il foglio di carta sono i performatori dell’azione di restituzione di un segmento di spazio e di tempo. Ma quella traccia è anche la testimonianza dell’incontro che una volontà esterna – ecco che torna l’inquadratura – ha ricercato, ha artificiosamente reso possibile, ha volutamente isolato, come in un laboratorio scientifico, o come in un teatro dell’accadere.

Lo stesso possiamo dire per gli specchi nel salone. Lo specchio riflette il suo intorno, e l’esperienza che si prova al suo cospetto è sempre per un verso una conoscenza dei fatti, per l’altro verso l’irretimento in un inganno.

La conosceva bene l’epoca barocca la fertilità del gioco degli inganni visivi, l’ingegnosità della moltiplicazione dei punti di vista, la funzionalità di macchine compositive sempre più complesse capaci di restituire in modo latente ma persuasivo la dialettica tra autorità e libertà, tra costrizione e immaginazione, tra ideologia e dissidenza.
La questione che pone Quida disponendo a terra, sotto un apparato decorativo possente, una piattaforma di lastre riflettenti costituita da specchi inclinati secondo angolazioni differenti, costruendo cioè un plateau sul quale lo spettatore non può camminare ma che può soltanto guardare, e al quale non può appartenere se non perifericamente, la questione che pone, dicevo, ha a che fare con un’articolazione mobile della relazione tra spazio reale-autore-specchio-osservatore. La macchina riflettente – che nel suo frammentare, moltiplicare, illuminare, celare, raccontare ed ingannare evoca dunque un congegno barocco della visione – ci illude circa la sua potenzialità rivelatrice, rivendica, con una malìa secolarmente esercitata, la capacità di restituire la verità dei fatti. Ma questa restituzione viene alterata da parecchi altri fattori. Ad esempio dal gioco delle inclinazioni, che moltiplicando le condizioni riflettenti rispetto alla luce, offre una’immagine cangiante del soffitto. E poi viene alterata dal posizionamento dei singoli frammenti specchianti, ovvero dalla scelta autoriale del cosa “inquadrare”, cosa selezionare del continuum della volta. Dunque una visione frammentata, parziale e cangiante che si pone in alternativa alla totalità ragionata ed equilibrata dell’apparato decorativo sovrastante.

Se si fosse trattato di un pavimento di specchi sul quale poter camminare, o di specchi posti verticalmente dentro i quali riflettersi, lo spettatore sarebbe entrato a pieno titolo, e integralmente, dentro lo spazio illusionisticamente concreto costituito dal soffitto decorato che si riflette su un pavimento specchiante, ne sarebbe diventato l’attivatore attraverso il proprio ingombro fisico, avrebbe vidimato l’esistenza di una realtà virtualmente congegnata. Senza contare che avrebbe in quel modo preso parte al gioco stesso dello specchio, si sarebbe confrontato, lacanianamente parlando, con l’enigma dell’identità, si sarebbe introdotto dentro quella “scuola del riflesso” che conduce alla conoscenza di sé.
Ma in questo intervento a Palazzo Mazzarino lo spettatore entra solo tangenzialmente in questa costruzione riflettente e neppure in tutte le sue parti, è un osservatore più che un attore, diventa un elemento cinematico per una visione propria e altrui più che una presenza vidimatrice di realtà, o un soggetto in postura autocognitiva (sempre pensando a Lacan). La sua è un’apparizione fugace più che un dato certo. Potrebbe ricordarci un inganno di sapore barocco, per l’appunto, o un’apparizione onirica di memoria surrealista…
Il gioco delle virtualità si complica, quindi, e si mette in movimento.
L’artista sceglie cosa inquadrare di quel ponderoso continuum del soffitto e nell’intreccio delle visioni moltiplicate attiva narrazioni nuove, connessioni desuete. Lo spettatore contempla, ma al contempo partecipa di quella moltiplicazione, ne è complice attraverso il suo deambulare intorno alla piattaforma specchiante, e quest’ultima, appena può, cattura una porzione del suo corpo, ne registra un moto dell’animo, svela un gesto inatteso.
La visione si fa complessa, le immagini scorrono come in un film di primo Novecento in cui il piano narrativo viene sacrificato all’altare del visivo, e in cui l’immagine, con le sue proprietà proiettive o rivelatrici, diventa perno di una cinesi psico-fisica che mette a nudo il noto quanto l’ignoto.
L’immagine logica dei fatti, un titolo che potrebbe echeggiare quello seventies di un film di Elio Petri, o di un pamphlet di Sciascia, è dunque un dispositivo a vocazione veritativa che a partire da un gioco di riflessi ambisce a costruire la scena, imprevedibile, di una serie di incontri, i cui protagonisti sono lo spazio, l’autore, lo specchio, lo spettatore, quattro personaggi di un racconto a trama libera, dove la presenza di chi guarda si interfaccia ogni volta con l’ambigua consistenza dell’immagine riflessa e con l’inconoscibile ragione dell’inquadratura, nell’impossibilità di trovare una stasi, o una logica, al dispiegarsi degli accadimenti e nella responsabilità di scegliere a quale frammento di realtà voler appartenere.

Ma continuiamo, ancora per poco, il gioco dei rimandi e andiamo un po’ più a fondo nelle relazioni che legano autore, interlocutore e spazio dell’evento.
Potremmo partire ad esempio dall’ambito di provenienza dei frammenti specchianti. Palazzo Mazzarino è stata una casa, ed è stata a lungo abbandonata. Tutti gli specchi dell’installazione hanno abitato degli spazi reali, delle stanze, non sappiamo più quali, non sappiamo più di chi, ma portano con sé il bagaglio muto delle tante esistenze delle quali hanno catturato/fermato dei momenti. E così il salone delle feste, che ha assorbito centinaia di sguardi, ha accolto e mescolato migliaia di stati d’animo. Li percepiamo sotto la pur silenziosa imponenza del soffitto. C’è una forte componente di umanità che riempie lo spazio. La sua consistenza rimanda a una sorta di mnestica astratta, di memoria non individuata, che diventa però portatrice di un abbraccio, di un coinvolgimento nella stessa, inesorabile, condizione di finitezza umana.
E ancora: gli specchi sono forme studiate e realizzate mediante l’artificio umano, ma la materia che li compone ha una vita propria, che continua il suo corso indipendentemente dal controllo di chi l’ha utilizzata e l’ha plasmata. Questi vecchi specchi al mercurio evidenziano i segni che il tempo ha inferto alla materia per via di processi naturali che l’uomo riesce a fermare solo per brevi periodi. Sono la cartina di tornasole di trasformazioni inarrestabili che raccontano la vita delle cose quando l’uomo ha smesso di esercitare un controllo su di esse, o quando non è più nella condizione di esercitare tale controllo. Processi trasformativi, talvolta degenerativi, altre volte rivitalizzanti, che alterano lo stato e il volto con cui l’uomo (così come l’artista) ha inizialmente forgiato la materia piegandola a un’idea.
All’interno di questa installazione alberga dunque una lacuna, una componente viva, un agente trasformativo. L’artista è egli stesso osservatore, e attende che la vita, quella vera, intervenga a sovrastare l’apparenza, a scardinarla, chiamando a raccolta le nostre facoltà più a rischio, e cioè l’acutezza dello sguardo (sulla realtà) e la lucidità della postura (etica).
Un’ultima suggestione, un’ultima immagine: la visione dell’affresco così ravvicinata e così deformata ci conduce indietro nel tempo, nel cantiere tardo barocco della volta, a fianco del suo autore e della sua bottega: facendo tesoro della distorsione e avvalendosi dell’ausilio degli specchi si doveva prevedere l’esito finale, muovendosi con destrezza tra la fisicità del fare e l’immaterialità dell’immaginare, tra l’abilità del mestiere e la libertà del costruire una visione in bilico tra finzione e realtà. Curatore Daniela Bigi.

02 The Gallery

03 The Book